“Ambaradan”, una parola nata da un genocidio




In italiano utilizziamo numerosi detti popolari che hanno un preciso riferimento storico.

Fare un quarantotto

è collegato ai moti rivoluzionari che scossero l’Europa nel 1848.

Fare le cose alla carlona

deriva dal modo di vestire trasandato di Carlo Magno.

Ma c’è un modo di dire in particolare che, per ignoranza della sua origine, è andato diffondendosi nel corso degli anni come nome di pizzerie, case editrici, negozi di articoli da regalo o di antiquariato:

AMBARADAN

Sicuramente sarà capitato a tutti di sentire questa parola, o magari di pronunciarla, almeno una volta in un contesto di confusione, disordine. È una parola quasi onomatopeica che risuona pure simpatica all’orecchio. Eppure non tutti sanno che questo termine ha origini tutt’altro che giulive.

Siamo nel contesto della guerra d’Etiopia (ottobre 1935 – maggio 1936). L’esercito italiano, comandanto dal generale Badoglio, è in piena fase di espansionismo coloniale. Mussolini decide di attaccare l’Etiopia, un territorio ricco di risorse, convinto di poter avere la meglio sull’esercito avversario in poco tempo, facendo leva sulla presunta superiorità italiana, culturale ma soprattutto tecnologica.

La Stampa, 1° marzo 1936

Per raggiungere la capitale Addis Abeba, però, bisogna superare la barriera naturale del monte Amba Aradam, presidiato dalle truppe etiopi. Così il mattino del 10 febbraio 1936 vengono inviati degli aerei di ricognizione per localizzare le posizioni militari nemiche disposte sull’altura.

Rerum Romanarum: Via dell'Amba Aradam

Successivamente l’aviazione rilascia una scarica di granate per allentare la formazione nemica e gas iprite a bassa quota anche sui civili, mentre a terra i soldati sparano proiettili all’arsina e al fosgene, fortemente tossici, andando contro le disposizioni della Società delle Nazioni – la mamma dell’ONU.

Amba Aradam, la montagna della vergogna italiana | Viaggiatori Ignoranti

L’iprite attacca le cellule con cui entra in contatto, distruggendole completamente. Causa infiammazioni, vesciche e piaghe, agisce anche sulle mucose oculari e sulle vie polmonari. La sofferenza è disumana.

La sera del 15 febbraio l’ultimo contingente di Mulughietà si dà alla fuga e Badoglio riesce a portare

Il Tricolore sull’Amba Aradam

grazie all’uso sconsiderato di agenti chimici anche dopo la resa etiope:

1367 granate caricate a arsine (composto solido che al momento dello scoppio si trasformava in vapori letali).

La caoticità della ritirata abissina e i continui massacri italiani rimasero impressi ai soldati ritornati in Italia, arrivando al punto di riferirsi a delle situazioni confusionarie “come se fosse ad Amba Aradam” (la trasformazione fonetica in “Ambaradan” è dovuta all’utilizzo del termine in funzione del parlato piuttosto che dello scritto).

La Stampa, 14 marzo 1936

Soldati, donne e bambini sopravvissuti all’iprite vengono stanati dalle caverne del monte in cui si sono rifugiati e sterminati a colpi di lanciafiamme.

La Stampa della Sera, 17-18 febbraio 1936

Segunda guerra ítalo-etíope - Wikiwand

Nel luglio del 1936 l’imperatore deposto, Hailé Selassié, denuncia tutto all’assemblea della Società delle Nazioni, ma l’Italia ammette le sue colpe solo nel 1996, grazie all’operato di Domenico Corcione – ex generale italiano e primo militare in congedo della Repubblica a ricoprire l’incarico di ministro della difesa nel Governo Dini – che desecreta gli archivi e fornisce tutti i documenti sulle verità negate fino a quel momento.

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Cinque anni di violenza indiscriminata, nascosta dal fumo dei gas: esecuzioni, stupri, campi di concentramento, torture fino al 1941, quando gli inglesi prendono il controllo della colonia italiana.

Un colonialismo breve ed estremamente violento, conclusosi con un nulla di fatto che ancora oggi pesa nel conto delle accise sulla benzine, destinate a ripagare quella spedizione.

Di “via dell’Amba Aradam” in Italia ce ne sono diverse: Padova, Mestre, Lainate, Civitavecchia e Roma.

Tra il 18 e il 19 giugno 2020, attivisti della rete Restiamo umani/ Black Lives Matter hanno coperto la targa della via con una che ricorda i nomi di George Floyd, l’afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis, e di Bilal ben Messaud, il migrante tunisino morto a Porto Empedocle un mese prima dopo essersi tuffato da una nave quarantena.

Per capire il paradosso, cosa pensereste se vi ritrovaste a percorrere un’ipotetica “via Auschwitz” nel cuore di Berlino?

(Simone Vazzana, “La Stampa”, 17 maggio 2017)

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