La mia esperienza di “razzismo interiorizzato” a Ferrara



Era un pomeriggio estivo molto caldo e umido.

C’era quell’afa tipica di Ferrara di luglio e agosto, mesi in cui le zanzare possono tranquillamente banchettare sui corpi della gente senza un briciolo di discriminazione.

Uscivo dalla stazione ferroviaria e la prima cosa che notai fu proprio quell’impietosa aria calda. Mi schiaffeggiò così forte che per un attimo mi tornarono in mente quei momenti in cui davo una mano a mia madre in cucina nel suo ristorante.

Cucinavo sul fuoco a legna e con la bocca soffiavo sui tizzoni in modo che potessero ardere meglio.

La sensazione di quel ricordo era così reale che ebbi un impellente bisogno di rimuovere immediatamente il cappello dalla testa.

Nei pressi della stazione si erge tutt’oggi un edificio di 20 piani, che per via dei suoi 90 metri è denominato “grattacielo”.

All’epoca non ero a conoscenza del fatto che tutta la zona circostante fosse un luogo di ritrovo di “venditori in attesa dei loro clienti”.

Al riparo da occhi indiscreti, sotto gli alberi antistanti il grattacielo, arrivano per acquistare la razione di “pane quotidiano”.

Io ero appena arrivato a Ferrara e parlavo un italiano stentato. Mi serviva qualcuno che capisse l’inglese.

Continuai a camminare sotto quegli alberi, tra gli altri compaesani seduti sulle panchine a godersi il fresco rifugio, quando a un tratto notai una ragazza africana di circa venti anni che chiacchierava con i suoi amici italiani.

Mi avvicinai a lei, convintissimo di aver trovato l’aiuto sperato, ed esclamai:

Hi!

Ma lei mi volto le spalle, sussurrò qualcosa ai suoi amici e andarono via ridendosela.

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Ingenuamente pensai che mi avesse frainteso, ma io non mi ero avvicinato per corteggiarla.

Riflettendo bene, non avevo messo in conto che forse uno di loro poteva essere il suo fidanzato, e che lei abbia reagito in quel modo per non farlo ingelosire.

Rimasi lì per qualche istante, assorto in quei pensieri che alimentavano il mio imbarazzo.

Alla fine chiesi le indicazioni stradali ad un’altra persona, che mi aiutò molto volentieri.

Qualche settimana dopo incrociai di nuovo quella ragazza. Aveva uno zaino in spalla e dei libri in mano, sicuramente stava andando all’università.

Feci un altro tentativo e le dissi:

Buongiorno.

Mi guardò di sbieco e questa volta ricambiò il saluto, anche se frettolosamente.

Per caso venne fuori questo discorso con mia cugina, che conosce molto bene la famiglia di quella ragazza. Mi disse di lasciar perdere e di evitare di salutarla, perché lei e i suoi fratelli trattavano tutti i neri in città nello stesso identico modo per un motivo molto semplice: suo padre, pur essendo africano, imponeva ai suoi figli di non associare la loro immagine a quella degli africani. Più semplicemente, non dovevano “farsela con la loro gente”.

All’arrivo in Italia, il loro papà subì molti episodi che lo segnarono profondamente: era deriso per il colore della pelle, per il nome e per il forte accento.

Il divieto di frequentare altri africani scaturì da queste ferite, che voleva evitare ai suoi figli.

Quei ragazzi sapevano tutto sulle loro origini, ma non ne andavano fieri e non ne parlavano mai in pubblico. Non avevano mai sentito i loro genitori parlare bene dell’Africa, come avrebbero potuto farlo loro?

Il razzismo e il pregiudizio non esiste solo tra razze diverse, ma anche all’interno della stessa razza etnica.

È un po’ come quello che accade quando qualche meridionale si sposta al nord o all’estero e suo figlio/nipote nasce lì. Il giovane cresce sentendosi “uno del posto” e critica un altro meridionale “invasore”, dimenticando i sacrifici fatti e le ingiustizie subite dai suoi antenati.

Questo comportamento si chiama “razzismo interiorizzato”:

Il razzismo interiorizzato è la situazione che si verifica in un sistema razzista quando un gruppo razziale, oppresso dal razzismo, aiuta la supremazia e il dominio del gruppo dominante, mantenendo o partecipando all’insieme degli atteggiamenti, comportamenti, strutture sociali e ideologie che sono alla base del potere del gruppo dominante.

È una sorta di coscienza doppia: ci si vede attraverso gli occhi degli altri e si accettano gli stereotipi negativi esistenti nei confronti della propria etnia.

James Arthur Baldwin, uno dei miei scrittori preferiti, poeta e attivista, una volta disse:

Quello che il mondo ti fà, se il mondo te lo fà abbastanza a lungo e abbastanza efficacemente, tu inizi a farlo a te stesso. Diventi un collaboratore, un complice dei tuoi stessi assassini, perché credi alle stesse cose a cui loro credono.

Non so se, a distanza di un po’ di anni, la ragazza si ricorda ancora di me. Forse finora nessuno le ha mai spiegato cosa si prova di fronte ad un comportamento come il suo.

Spero che un giorno riesca a leggere questo racconto e possa capire come mi ha fatto sentire in quell’occasione.

Quel giorno promisi a me stesso che non avrei mai trattato nessuno in quel modo.